Eravamo tutti vivi di Claudia
Grendene, Marsilio Editori, è un libro di ingannevole semplicità, o di una complessità che si cela
sotto un uso scorrevole e leggero della lingua.
Leggerezza apparente anch’essa,
perché Claudia Grendene colpisce con verità potenti.
Alla fine, che non svelo, sono
rimasta interdetta.
Provo a spiegarmi.
Io di Eravamo
tutti vivi, me ne sono innamorata a scoppio ritardato.
Mentre lo leggevo
e osservavo quell’artificio mai letto prima del montaggio a ritroso, che pure
lasciava non svelato il seguito, che era l’antefatto, come se fosse un
artificio, appunto, quindi con un certo distacco, mi sono ritrovata, senza
rendermene conto, dentro una storia nella quale l’occhio di bue, non l’uovo,
anche se sapete che sono una burlona, ma il fascio di luce, si sposta da un
personaggio all’altro, da una storia all’altra, ricostruendo le vicende della
mia generazione come, appunto, non avevo mai letto.
Così quando mi sono accorta che
quella narrata era non solo, come si è giustamente scritto, una storia corale,
ma soprattutto, e quello che a me importa di più, anche la mia storia, ne è
derivato quel senso di straniamento e di gratitudine insieme e, quando Claudia Grendene, con quel fascio
di luce, mi ha fugacemente, ma non troppo, mostrato dov’ero io, lì dentro, mi
ha vista e mi ha riconosciuta, e con me tutti noi, io l’ho ringraziata per
quello strano gioco di specchi.
Per quello sguardo benevolo, carezzevole e non
performante.
Così mentre io cercavo di stanare
lei, e analizzavo la tecnica, e studiavo le scene, dottamente ottusa, io dico di me medesima, dolcemente, ma con fermezza,
Anche se Claudia Grendene dice che i libri non hanno le gambe, la mia copia non 'salta fuori' |
Questa
la sensazione, e non si può immaginare il sollievo.
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