Un’autobiografia intessuta sui lavori, sul lavoro che nobilita l’uomo, ma fino a un certo punto, perché la vocazione di quest’uomo è stata la scrittura.
Quindi sui lavori fatti da uno scrittore che non poteva contare che su sé stesso per fare quello che voleva fare.
Lavori innumerevoli e credo di aver perso il conto di quanti ne siano stati cambiati dall’autore di Works, Vitaliano Trevisan, che in questo tomo di oltre 650 pagine, mi ha incatenato alla sua voce, disincantata, amara, per nulla simpatica, ma proprio per questo molto forte.
Tutti i lavori, dal primo a una pressa, ancora adolescente, al quale il padre lo aveva obbligato per comprarsi una bicicletta nuova, passando per il manovale di cantiere, per il geometra, per il lattoniere, gelataio in Baviera, per il portiere notturno sono raccontati e la vita professionale diventa materia narrativa ed è come il maiale, del quale non si butta nulla.
Ti accorgi, o almeno io mi accorgo che un libro mi piace, quando vorrei conoscerne l’autore.
Così io Trevisan avrei voluto conoscerlo, di persona. Cosa che non è più possibile, perché Trevisan è morto, a gennaio di quest’anno.
Credo che in primis questo farebbe inorridire Trevisan, ovvero il fatto di suscitare in chi legge la voglia di incontrarlo, ma tant’è, a me i libri belli fanno quest’effetto.
Works mi ha strappato più di un sorriso, mi ha emozionato, mi ha fatto arrabbiare.
Su tutto mi ha incuriosito la teoria, che condivido, che la letteratura non debba comunicare, che lo scopo della letteratura non sia quello.
Apparentemente l’oggetto libro appare un saggio, ma è appunto un’autobiografia e anche un romanzo, quindi è un oggetto strano, atipico e anche per questo un'opera d'arte.
Dentro c’è la figura di un uomo che osserva ed è osservato, un uomo a volte, forse troppo spesso, solo e c’è un Nordest che a parte le bestemmie in vicentino, rigorosamente tradotte nelle note a piè pagina, con un vezzo molto ironico, assomiglia, per molti versi a questa provincia derelitta e danarosa dalla quale anche io provengo.
C’è uno sguardo molto attento e acuto e non giudicante, ma disilluso e per certi versi estenuato su un’Italia che ha fatto del lavoro un pilastro per la realizzazione del sé.
C’è un uomo che precipita, che cade e si rialza, che cade e si rialza e sapere com’è andata, alla fine, mi ha destabilizzata non poco nella lettura.
Quando Trevisan descrive la logica perversa delle morti sul lavoro, perché adeguarsi alle norme di sicurezza porterebbe al collasso piccole ditte che annaspano e se si adeguassero a quelle norme fallirebbero, mi è sembrato di riconoscere una realtà che purtroppo è ancora immutata.
Quando scrive di differenze di classe, ci vedo qualcosa che riconosco e che vivo e ho vissuto.
Quando scrive di morti di eroina, di comunità di recupero che sfruttano il lavoro, con occhio così lucido e ironico, e ancora mi vien da scrivere disincantato, mi vengono in mente realtà che anche io conosco, e quando parla di storie di corna, pure.
Molta vita. Una vita per certi versi troppo grama, graffiante.
Una penna asciutta, ma incisiva e una lingua scarna, ma precisa, come doveva essere il suo autore, autore che ribadisco, purtroppo non ho conosciuto e al quale se lo avessi conosciuto, probabilmente, non credo che avrei fatto una buona impressione sia per la mia situazione di dipendente statale, sia forse, per la mia estrazione operaia fino al midollo, ma in fondo in fondo, molto piccolo-borghese, almeno nelle aspirazioni.
Adesso non mi resta altro da fare che ribaltare la casa alla ricerca de I quindicimila passi, altro suo romanzo che possiedo, e buonanotte.